Ma quanto coraggio ci vuole per fare il bene?
Provo goffamente a mettermi nei panni del dottor Melchionda, primario di rianimazione dell’ospedale di San Giovanni Rotondo, quello voluto da padre Pio.
Anni fa arriva in reparto D., bimba di sette mesi con problemi respiratori. Gli esami rivelano una malattia rarissima, la sindrome di Bruck, che deforma gli arti e intacca tutti i movimenti tranne quelli degli occhi.
I genitori sono anime difficili con vite difficili. Sbandate. Un po’ alla volta le visite al capezzale della figlia si diradano fino a scomparire. Se qualcuno pensa di giudicarli, sappia che il dottor Melchionda non lo ha fatto mai.
Il reparto si trasforma in una task force dell’affetto: D. non dovrà mai sentirsi sola. Intorno al suo letto, una siepe di cannule e tubi, ci saranno sempre un medico o un infermiere per farle una smorfia o un sorriso, ricevendone in cambio una strizzata d’occhi.
Quando l’assistente sociale domanda chi assumerà la patria potestà della bambina, il primario non ha esitazioni: io. A casa ha moglie e figli, ma quest’altra figlia appartiene alla sua famiglia d’elezione, l’ospedale.
Qui il dottore è il papà, suor Noemi la mamma e il personale medico e paramedico la tribù variopinta degli zii.
Nel frattempo D. ha compiuto sei anni, è diventata la mascotte del reparto e non passa giorno senza che la sua famiglia in camice bianco non le dedichi un gioco, un pensiero, una porzione di tempo libero.
Ieri il tribunale di Bari ha concesso l’affido al dottore, che adesso punta dritto all’adozione.
Ma quanto coraggio ci vuole per fare il bene? Tantissimo, e non essere da soli a farlo aiuta.
Tantissimo.
Un grazie sincero a Massimo Gramellini che mi ha concesso di pubblicare su EBC il suo articolo, apparso su Stampa.it il 25/10/2013