La stanza di mezzo collegava le diverse parti della casa.
Abbastanza grande prendeva luce da un’alta e ampia finestra che affacciava su un cortile interno. Sotto al tetto c’erano i nidi che ogni primavera si riempivano di rondinini in attesa di cibo.
Arredamento modesto, un tavolo, un mobile ottocenteschi anneriti dal tempo, sedie scompagnate, un armadio per riporre i soprabiti e poi loro…gli orologi e il banchino.
In un angolo spiccava,in assoluto disordine, il vecchio mobile da lavoro del nonno. Tre cassetti da un lato, uno centrale, il piano coperto da orologi interi e a pezzi, da piccoli attrezzi e da tante altre cose utili, tutte mescolate, con la tavoletta sporgente per appoggiare il lavoro, sempre infilata.
Appesi alle pareti intorno, c’erano gli orologi, a pendolo, a cucù, da parete, di ceramica, di metallo. Poggiati sull’alzata del mobile sveglie di tutte le grandezze, da tavolo, di ottone dorato e le “ parigine” con le loro statuette neoclassiche e il delicato meccanismo perfettamente bilanciato. E poi c’era il pendolo da terra che rintoccava con il suono del “Big-Ben”.
Ricordo il babbo, immerso nel cono luminoso della luce con l’occhio coperto dalla lente di ingrandimento che aggiusta i suoi orologi, per passione e non certo per mestiere.
Quando gli orologi erano riparati, in parte per essere provati, in parte per il piacere di sentirli, li caricava tutti insieme e, per un po’, si scatenavano i più diversi suoni, con disperazione della mamma e gran divertimento di noi bambini.
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