UNA DONNA SUL TRENO AL TEMPO DEL CORONA VIRUS

Era un treno come tanti altri, anche se io di treni non ne conoscevo molti. Non erano più i tempi di quando tutte le mattine ne prendevo uno per andare e tornare da scuola, ma quella mattina dovevo andare a Firenze e non avevo voglia di stare attento ai viali, alle macchine che li percorrevano con protervia e presunzione, con prepotenza. Un treno moderno che sembrava nato vecchio, fatto con materiale che voleva essere frivolo nei colori.

Dovevo andare a Firenze, come ho detto, in Via Pellicceria, sarei sceso alla Stazione Centrale, con calma, sarei passato dal Mercato (quella struttura così “demodé” mi attraeva) e fatto una visita alla Basilica di San Lorenzo, quelle pietre irregolari sulla facciata, ma lo scopo della mia visita nella chiesa era il grande quadro di Annigoni: un San Giuseppe sopra un altare sulla sinistra, entrando.

Non è un capolavoro ma a me piace.  Le figure di Annigoni sono spesso senza espressione, come abbozzate, colli taurini, mento squadrato. In quel quadro San Giuseppe accarezza il capo di un Gesù bambino, nella bottega, con i capelli biondi e luminosi, accanto al tavolo da falegname, sul quale il Bambino sembra cercare qualcosa, tutta l’attenzione viene richiamata da una luce che parte da un tavolone appoggiato al banco e, da quello, si sta formando una croce che diventa luce.

Sarei svicolato poi nel portone accanto alla facciata per curiosare se nel portico le azalee fossero fiorite.

Avrei ripreso poi il mio andare, passando dal Battistero e preso via dei Calzaioli per curiosare davanti a quei negozi quasi impossibili.

Ci sarei arrivato in treno con la giusta serenità e, siccome era la Settimana Santa, sarei passato dal Giacosa per un pan di ramerino e un buon caffè, guardando i quadri con i chierichetti vestiti di rosso del Martini attaccati ai muri, e il cassiere in doppio petto scuro.

Una giovane signora era salita, prima che il treno partisse. Si era sistemata sui sedili vicini ma oltre il corridoio, e aveva attratto la mia curiosità. Bionda ma come se la cosa non le importasse (Guccini aveva scritto in Autogrill “senza averne l’aria”) era bella ed elegante. Una sorta di timidezza mi fece fare finta di niente, ma la cosa mi piacque, inutile anche dirlo, pensavo a un viaggio che sarebbe diventato piacevole.

Il volto perfetto, aveva lineamenti puri, con i capelli che descrivevano la testa, lasciando l’ovale del viso libero e senza ombre o sotterfugi. Avevo solo incrociato il suo sguardo mentre mettevo a disposizione di lei un sorriso di convenienza, sulle mie labbra.

I suoi occhi, io sono curioso, lo dico per chi non mi conosce, erano di un colore tenero di cerbiatto, ma contrariamente a questi, erano sicuri e non in fuga. Le sopracciglia erano serene e nemmeno marcate, la sua bocca di un rosa “vestito di bambola”, aveva labbra delineate.

Il fatto della matita mi fece pensare a Stefania: aveva una bocca altrettanto bella, sempre preziosa, sempre perfetta, con il colore che metteva, spesso un rosso che dava sul prugna e ogni volta che ci lasciavamo prendeva dalla borsetta la matita e lo specchietto per delinearla. E ogni volta, lo faceva più volte, per quella sorta di nostalgia che ci prendeva già prima di lasciarci.

Il treno con un rumore inadatto, un frusciare di porte scorrevoli ed elettriche, non più i colpi potenti di portiere chiuse dal capotreno, solo un fischio lungo era rimasto, si mosse verso i binari che indicavano un tragitto e una strada.

La giovane donna si era accomodata come se il viaggio dovesse durare una vita, aveva accavallato le gambe, passando le mani sulla gonna per togliere qualsiasi piega che avesse potuto prendere, allungandole verso il ginocchio. Aveva tolto la giacca e, con una mossa sapiente, tirato le maniche della maglia verso il gomito facendo tintinnare i braccialetti, ma solo un poco, forse più che farlo lo avevo immaginato io. La borsetta era al suo fianco sul sedile e il suo sguardo cercava il paesaggio che stava correndo accanto a lei oltre il vetro sporco del finestrino, quasi una gara con il treno.

Anche dalla mia parte il paesaggio correva, un campanile che riconobbi di una piccola località, fabbriche imponenti. I boschetti si alternavano a campi lavorati, marroni di terra fresca, Lucca era rimasta a Lucca, con le sue ombre vecchie di secoli, fra quei vicoli che dividevano palazzi importanti e nobili. Le torri e i campanili delle sue chiese sapevano di storie da raccontare, il Guinigi aveva messo i lecci sulla sua torre, lui era un originale.

Mi arrivò un leggero profumo di donna, quel mix che comprendeva i profumi della toilette della giovane oltre il corridoio. Sono odori che si mescolano, un bouquet personale, quello della pelle, dei capelli, ognuno ha il suo, come il profumo.

Aveva appoggiato il gomito al ginocchio e il mento alla mano, sembrava contare i gelsi che erano rimasti nei campi, che correvano via. Ma si stancò presto di quella posa che l’obbligava a stare in equilibrio in avanti, si ricompose e presa la borsetta cercando lo specchietto, si guardò un attimo, solo un attimo, e si toccò le ciglia. Compiaciuta, ripose lo specchietto, mi guardò e invertì le gambe accavallate. Mise la testa nell’angolo della spalliera, dove aveva agganciato la giacca e chiuse gli occhi.

Io tornai a guardare fuori dal finestrino e mi rimproverai di non aver portato un libro con il quale, facendo vista di leggerlo, mi sarei dato un contegno.

Pensai che fossimo due estranei, due persone sconosciute su di un vagone di un treno locale, niente di più. Almeno fossimo stati su un treno dell’Orient-Express con un’Agatha Christie che ci guardasse per raccontare chi di noi fosse l’assassino o la prossima vittima.

Mi chiedevo come mai dopo il Coronavirus, dopo i tanti mesi vissuti soli, anche lei andasse a Firenze, sola.  Si, perché ero convinto che lei, la giovane donna, andasse a Firenze e non chiedevo a me stesso perché fossi altrettanto solo e non avessi chiesto a un amico di venire con me. Io lo sapevo e se non lo sapevo non mi interessava del perché fossi solo. Della donna invece mi meravigliavo.

Era quello, per me, un viaggio di ricontatto con il mondo, avevo deciso Firenze non perché prima del Coronavirus andassi regolarmente a Firenze, ma forse perché erano anni che non vi andavo, da quando avevo smesso di lavorare e andavo a Firenze per riscuotere da un cliente di allora, da Nello in Via Pellicceria.

Proprio il fatto che si riferisse a un periodo della mia vita passata mi aveva convinto. Sarei andato alla Loggia del Porcellino e avrei toccato il suo naso, liscio, perché per i fiorentini questo gesto porta fortuna. Ero solo, potevo andarci con mia moglie o con un amico, potevo andarci con i nipoti, ma sarei stato distratto dalle loro cose belle.

Non era un viaggio di piacere, era per ricordare le paure, prendere coscienza di tutto quello che era cambiato, della nostra nuova povertà ma non con le “requisitorie” dei preti, che non lasciavano passare niente che non portasse acqua al loro mulino. E in quei giorni sembravano aver ricaricato le pile e ci dicevano come il Signore (questa poi) ci avesse mandato il Coronavirus per farci capire che eravamo polvere, per farci riflettere su come noi, prima, ci sentissimo invincibili. Insomma dovevamo ringraziare il Signore sempre e per tutto.

Almeno il Santo Padre, solo, con il suo problema a camminare, in una Piazza San Pietro deserta e piena di acqua che cadeva, con la Croce che gli pesava, aveva salito i gradini e ci invitava a pregare il Cristo di allontanare da noi questo calice. Lo aveva fatto anche Lui, il Cristo, con suo Padre. Bianco, il Santo Padre, senza nessuno che potesse sorreggerlo se da vecchio qual è fosse inciampato.

Ma i preti sono così. E nessuno si ricorda il nostro che agli inizi della pandemia, urlava che quando i preti avevano la fede, quando i vescovi avevano la fede, le chiese non si chiudevano, ma si aprivano!! E giù a trovare ricordi della peste di Milano, detta di San Carlo, quando la Chiesa, visto il dilagare del virus  Covid 19, aveva disposto la chiusura del Duomo di Milano. A volte il Santo Padre mi sembra solo.

Certo il prete, come tutti noi, era impreparato, ma perché urlare sempre contro chi non la pensa come te? E’ già una moda quella di urlare e offendere.

Ecco perché non vado a un Santuario.

Quando seppi di Carlo, ricoverato, poi messo in terapia intensiva, fu un colpo per me. Ancora prima la divisione dalla famiglia di un mio figlio, fuori Comune, poi la mascherina e i guanti, la limitazione della libertà, gli spostamenti proibiti o giustificati, far la spesa a un supermercato che non era più il “tuo” al quale eravamo abituati, solo e non più con la moglie, come tagliare il filo a un burattino.

I morti che ti dicevano erano numeri, erano persone che avevano mille problemi. La nostra cultura e la nostra voglia di estraniarci dal pericolo, ci facevano pensare alle differenze fra noi e quelli che morivano. Noi non avevamo il diabete, non eravamo obesi, non avevamo patologie precedenti e quelli che morivano le avevano, sicuramente le avevano.

Poi Carlo, quel Carlo con il quale andavo a fare le escursioni, quello che mi aveva fatto compagnia, anzi mi aveva portato nel parco delle Cinque Terre per poi allungare, in alcune tappe, fino a Sestri Levante. Quel Carlo che mi aveva fatto scoprire la bellezza di Punta Manara o di Punta Mesco, del Santuario Nostra Signora di Soviore sopra, molto sopra, Monterosso. Mi sembrò che il virus mi togliesse un amico, non volli dirlo a nessuno, lo tenni per me, solo a pochissime persone per parlarne e sentire il dolore della cosa. Dentro di me mi sembrava di difenderlo, di curarlo, non metterlo nelle notizie di tutti i giorni, nell’elenco di chi era stato colpito. Allora sarei andato a pregare la Madonna.

Ogni paese delle Cinque Terre ha un suo Santuario, partendo da quello in alto sopra Riomaggiore, il Santuario di Nostra Signora di Montenero, e quello di Vernazza, che si raggiunge con un sentiero irto e lastricato, della Nostra Signora di Reggio. Gente di mare gli abitanti delle Cinque Terre, avevano bisogno di pregare, le donne, le mamme dei marinai sorpresi dalle bufere in mare. Tutti i Santuari intitolati alla “Nostra Signora di..” sapevano di preghiere rivolte a una Donna, a una mamma, che per quel rispetto e devozione diventava Signora.

In questi luoghi di preghiera mi ci sento, mi si apre il cuore, m’immedesimo in chi prega per chiedere, loda per ottenere, anche se riconosco che è tanto umano tutto questo. E la Nostra Signora saprà perdonarci?

Dicevo di Carlo, lui che non era obeso, non aveva il diabete, era in perfetta forma, perché stava lottando in rianimazione? Lui che ci anticipava nelle salite, andava in avanscoperta?

  La giovane donna alternava momenti d’inquietudine, sembrava non riuscire più a stare ferma ad altri in cui sembrava essersi addormentata, se non fosse stato per quelle ciglia che si aprivano come code di pavoni. Apriva la borsetta, cercava, niente, e la richiudeva.

Pensavo che l’avrei sicuramente incontrata in Via dei Calzaioli, con un sacchetto del Mia Bag, un’aria da saputella e le labbra arricciate quasi scontenta, fiutare l’aria di Firenze, andare in Piazza Signoria e guardare il David da lontano e il Palazzo Vecchio. Vecchio lo è, il Palazzo. Fatto costruire dai Guidi, somigliante a quello da dove venivano, quello di Poppi. Avevano proprio una fissa i Guidi Simone e Guido, con l’immagine della loro casa. Anche a Vinci, sulle colline, avevano una costruzione che somigliava a quella di Poppi.

L’avrei invitata a prendere un caffè con me dal Giacosa…ma ci sarà ancora il Giacosa? No, non c’è più il Giacosa. Tutto cambia, il tempo è come l’acqua del mare che porta via i castelli dei bambini, che prima li lacera e poi li fa scomparire.

Noi invece siamo dei Mangiafuoco, noi creiamo burattini, ma siamo pronti a buttarli nel fuoco appena ci serve della legna per scaldarci o farci da mangiare. Lo abbiamo fatto con i dottori. Santi subito. I nostri supereroi, le mamme dicevano ai loro figli che il mondo era cambiato, i supereroi non avevano più i mantelli ma erano vestiti con vesti bianche, mascherine, visori, cappelli, guanti, i nostri dottori. Gli infermieri, quanti ne sono morti.

Santi subito. Come con Papa Wojtyla, Santo subito. E chi lo sapeva, diceva che altrimenti dopo i cinque anni della prassi, nessuno si sarebbe sentito emozionato da farlo santo.

Gli ospedali, dove i nostri supereroi hanno lavorato improvvisando, indossando più mascherine una sopra l’altra perché non esistevano quelle specifiche, in ambienti ricavati da altre strutture, ora si vedono fare la conta delle pulci.

E i politici che mostrano le loro falsità, che corrono dietro al numero dei voti che gli affidano al momento, bugiardi, pronti a voltar gabbana e a dir “io lo avevo pur detto” a un mondo di persone che dimenticano.

E noi su quel treno, dopo essere stati vaccinati, noi che stavamo sperimentando ancora i vaccini, che aspettavamo curiosi, se quel pizzicore che ci spingeva a strusciare le spalle agli stipiti, come grossi maiali presi da prurito, non sfociasse in grosse ali di pipistrello, enormi e grigie del colore del topo: ci avrebbero detto, bofonchiando, che del resto i vaccini non potevano essere provati sugli animali perché questi non erano attaccabili dal virus, e allora per il bene dell’umanità, noi, altri eroi, dovevamo provare i vaccini sulla nostra pelle.

Il treno, dopo il nero del tunnel, aveva rallentato e fra i vivai Pistoia sembrò una città verde, sulla banchina una donna capostazione aveva un berretto issato sui suoi capelli, come un trofeo.

Certamente gli impiegati pubblici potevano stare tranquilli. Per loro la quarantena era stata solo un periodo di riposo forzato. Tornati al lavoro e sempre lo stipendio a fine mese. Per gli altri c’era da far i conti con i mutui e gli impegni presi. Andatelo a dire a quel prete che pontificava in TV e ci voleva convincere che Dio aveva mandato il Coronavirus per farci capire che non eravamo niente. E all’altro, un frate, che asseriva che il virus era mandato ancora da Dio per tutte le nostre malefatte.

Ditegli come gli imprenditori avevano messo in gioco la loro esistenza, avevano venduto i loro sogni alle banche in cambio di capitali con i quali realizzarli. Un geometra di un Comune vicino mi disse che finalmente questa interruzione dei lavori ci voleva per far tornare chiari i fiumi. No Giorgio, ci voleva il lavoro, le fabbriche che producevano e i fiumi dovevano tornare chiari perché chi era messo a controllare controllasse.

I pensionati, quelli rimasti, avevano il bonifico puntuale alla scadenza, finché c’erano i soldi. E se per un caso di mancata liquidità i bonifici non arrivassero?

Le banche già avevano alzato dei muri, non gli schermi protettivi in plexiglass ma veri muri di omertà, così da capire che loro, le banche, dovevano guadagnare e se non guadagnavano i direttori diventavano fattorini e i fattorini sarebbero andati a portare le pizze a domicilio per Miss Pizza.

Il treno era ripartito quasi con lena, sembrava non veder l’ora di arrivare a Firenze.

Quante Case di Riposo ci saranno a Firenze? Quante cause in corso?

Quanti poveri vecchi saranno morti?

I tribunali snocciolano numeri, accuse di menefreghismo, di interessi privati, a Milano; perché negli uffici direttivi c’erano poltrone per i politici e non per tecnici qualificati per la conduzione di queste aziende? Queste responsabilità erano diventate poltrone onorifiche per politici dal successo mancato. Il Giovanni doveva diventare onorevole, non è passato per sfortuna, (al suo posto c’era da sistemare il Bigotti) mettiamolo direttore alla RSA, se lo merita, ha fatto tanto per l’idea… Ma la RSA meritava di essere guidata da un mancato onorevole che andava al lavoro pensando che se non lo avessero “fregato” ora sarebbe negli scranni a Montecitorio, a Roma, a guardare il sole, a sentirsi bene, come un principe del foro, quello Romano, con la tunica con una spalla nuda, con la corona di alloro a tappare la grande chierica nei capelli?

Morire deve essere solo un attimo, aver paura di morire non ti abbandona, ti segue, anticipa i tuoi pensieri, i figli e tutti gli altri, gli affetti che hai vissuto, che hai coltivato. Essenziali erano gli affetti, eri orgoglioso dell’amore che girava con te. E questi commendatori vanitosi, diventati un ammasso di carne vecchia, e senza più coscienza di se stessi, come il ragioniere Barzizza e il pollaiolo di Via Manzoni e Sor Ambrogio, il macellaio dei mercati generali, ognuno con la sua inconsapevole assenza, che si guardavano in giro meravigliati perché l’aria non gli arrivava ai polmoni, la saliva che gli scendeva numerosa e loro che sentivano che mancava qualcosa ma non sapevano cosa. Le infermiere che gli sembravano…, cosa penseranno i malati di Alzheimer delle infermiere? Gli anziani come me. E le donne specialmente che cominciano a parlare e pensare a chi le “guarderà” quando ancora sono nel fiore del loro vivere, si trovano isolate dal loro mondo, dalle loro famiglie, persone estranee, eroi ma sempre estranei, che lavano i loro corpi, si prendono cura dei loro difetti, danno loro da mangiare guardando i monitor per fare un pronostico se camperanno o moriranno. Morire senza gli occhi conosciuti che piangono con te. Meglio.

Mi sono ricordato della bionda, senza averne l’aria, come un fiore di scarpata ferroviaria, (sempre Guccini) l’avevo guardata e mi sembrava ancora più bella. Uscivo dai miei pensieri, dove i personaggi erano senza idee, senza più cervelli e la carne solo qualcosa che si arrotolava a vecchie ossa, gli occhi vuoti che cercavano eternamente farfalle senza sapere che si chiamavano farfalle e allora mi sarei trovato di fronte un nasino impertinente, le labbra imbronciate appena, perfette, con la matita evidente, gli occhi da cerbiatto mentre giace sicuro in grembo alla madre, i suoi occhi sognanti il suo amore che la stava aspettando. O forse che ancora non aveva e allora sognava quello che sarebbe stato, pignola, le attenzioni che le avrebbe riservato, le carezze che teneva in serbo per lei.

Una stazioncina, le porte che aprono e si chiudono, un signore un poco zoppo che trascina un grosso sacco, il fischio e il treno che ripartiva.

Carlo era tornato, aveva sofferto, ma torneremo a camminare, andremo a Portovenere, saliremo la lunga scalinata verso il Colle del Telegrafo, poi scenderemo al Santuario della Nostra Signora di Montenero e ripidamente a Riomaggiore. Sarà bellissimo vedere le case che sembrano nascere da un mare azzurro e quella sterminata distesa di acqua che a me dà sempre un po’ di affanno. Diceva che non sapeva se sarebbe ancora come prima. Andremo più piano, se mai fosse possibile. Abbiamo tempo, noi.

Prato, stazione di Prato, la giovane donna si alza, si stira la gonna, indossa la giacca, tintinnio dei braccialetti, discreto e cristallino, prende la borsa, in equilibrio instabile, anche se il treno sembrava portarla come su una mano guantata, è una passeggera di eccellenza, dobbiamo averne cura, dice al capostazione fermo sotto la pensilina. Le porte scorrendo si aprono, lei risponde al mio sorpreso sguardo, al mio buongiorno, come un onorevole che ti lascia appena la mano, te la concede quell’attimo per toccarla, non per stringerla. Anche il Rosi, direttore alla Casa di Risparmio, allora, ti prometteva la mano per salutarti, ma solo la punta delle dita, se ti sbrigavi. La donna ci lasciava in suo ricordo un sorriso dolce di pesca vellutata e due occhi che ti sfioravano fra i battiti delle ciglia.

Era scesa, se n’era andata. Niente via dei Calzaioli, niente negozio di accessori, nemmeno uno sguardo al David.

Prato. Ma che ci andava a fare una donna così a Prato?

Che cosa interessa a me? Era solo una curiosità. Io sarei andato a Firenze, dopo essere passato da San Lorenzo, sarei andato in Via Pellicceria, senza sapere cosa ne sarà stato del Signor Nello e della Vera. Avrei toccato il muso del porcellino, lucido come appena fuso, e avrei guardato il mercatino sotto il bel colonnato e mi sarei girato a guardare Orazio, il trippaio del Porcellino, famoso in centro per i fiorentini e i turisti, che dopo essersi fatti un selfie con il cinghiale (i fiorentini lo chiamano porcellino per una sorta di confidenza) sentono i profumi e vengono attratti. Un panino al lampredotto classico e trippa con salsa verde e piccante, un bicchiere di vino ruspante e scaccia problemi.

Proprio quello che ci vuole.

 

 

 

 

 

 

 

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